“Ha ucciso lei Maria?”
domandò il comandate, per la diciannovesima volta; ricevette, per la diciannovesima volta, una risposta negativa. Pensai fossero degli inetti, gli agenti dico, tutti quanti, con quelle espressioni da pesce lesso, evidentemente sovrappeso e stufi ancora prima di cominciare a fare il loro lavoro. Pensavano forse che l’assassino, sempre che ce ne fosse uno, dichiarasse a gran voce “Sì, l’ho uccisa io”!? Bah. Certo che schiattare strangolati con un filo di lucine di Natale è proprio una morte stupida. Sì, fu questa la prima cosa che pensai.. successe vent’anni fa ma lo ricordo ancora bene, limpido, lucido. Maria partecipò con me e altre diciotto persone ad un corso di scrittura, a Milano, dieci lezioni, ogni lunedì.
Compagni brillanti, non quanto me, ma non mi lamentai mai, anche il professore non era affatto male. Maria, ah Maria, un tatuaggio sul polso sinistro, il nome di una donna, non feci in tempo a chiederle chi fosse, capelli lunghi, rossi, sempre vestita di nero, donna assai interessante, maliziosa, brillante.
Ah, Maria.
Ogni lunedì si sedette alla sedia di fianco alla mia, per tutta la durata del corso, ci capimmo al volo, sorrideva sempre ma di un sorriso malinconico, ricordo che pensai che forse non le piacevano i suoi denti visto che si copriva sempre la bocca con la mano sinistra quando sorrideva. Così notai il tatuaggio.
Sono passati vent’anni e ancora mi frulla in testa.
“Ha ucciso lei Maria?” ribadì il comandante
“Pensa che continuando a chiedermelo avrà una risposta diversa?” risposi secca
“Non faccia tanto la spiritosa”
“E allora lei provi ad essere un po’ più brillante”
“Se ne vada” tuonò il poliziotto.
Cosa sperasse di trovare in me ancora lo ignoro.
Un urlo, fastidiosissimo, destò la nostra attenzione, fu la segretaria della scuola a trovare il corpo di Maria, al piano di sotto, nello sgabuzzino. Morta, stecchita ma con un’espressione di pace in volto, mi chiesi quale fosse stato il suo ultimo pensiero, un pensiero felice, visto il sorriso appena abbozzato. Meno male non le si vedono i denti, non le sarebbe piaciuto, pensai.
Un odore agrodolce riempì la stanza, forse l’odore della morte, mista alla puzza di pan di zenzero di quegli schifosissimi biscotti di Natale. Bleah, mai sopportati.
Morire strangolata da un filo di lucine di Natale, ah Maria.
Le parlai dell’idea per il mio romanzo su cui lavoravo da tempo, sembrò sinceramente colpita; era facile parlare con lei, era bella, era un magnete e nei suoi occhi mi persi così tante volte che smisi di contarle.
Sono passati vent’anni da quando l’ho uccisa.
Ho dovuto farlo. Dovevo sapere cosa si provava ad uccidere. Per il mio romanzo, si capisce!
E quegli imbecilli di poliziotti non mi scoprirono mai.
Venti persone, un’unica porta, e non trovarono uno straccio di prova.
Suicidio, caso chiuso.
Il mese scorso è uscito il mio romanzo, finalmente, parla di te, Maria.
Ah, Maria.
Finalmente hai avuto giustizia e io finalmente ho pubblicato il mio romanzo; la fine della tua vita, la tua morte, la fine della mia libertà, la galera, ma il mio nome scritto nella letteratura italiana per sempre.
È già un best seller infatti.
Grazie Maria.